mercoledì 17 ottobre 2012

Turner o Rivers?

Should Turner Be fired? (Turner deve essere licenziato?) titolava un articolo video sul sito ufficiale NFL a seguito della clamorosa sconfitta subita dai Chargers per mano dei Broncos di Peyton Manning e la risposta, data dai due esperti in studio (seppure con sfumature diverse) è che, viste le sei palle perse, è il QB Philip Rivers quello da accusare per la sconfitta, mentre il coach ovviamente non può essere accusato di niente se non di non aver tolto dal campo il QB medesimo.
Sullo stesso sito un articolo di un blogger ufficiale ironizzava sulle risposte del coach dei Chargers in conferenza stampa e commentava la risposta di Turner alla domanda "Non avete pensato di sostituirlo?" affermando che si trattava di una "blanda difesa nei confronti del QB veterano, perché la parola "elite" con cui eravamo soliti far precedere le lettere Q e B parlando di Rivers da oggi non si applica più".

Personalmente sono convinto che molti da ieri si stiano togliendo parecchi sassolini dalle scarpe, visto che Philip Rivers è tanto socialmente impegnato a San Diego quanto ufficialmente antipatico alla maggior parte dell'ambiente NFL sia per via della sua lingua tagliente che per il comportamento poco rispettoso che ha in campo verso gli avversari, ma questo non deve far dimenticare che la responsabilità è ben differente dalla colpa e che quella coi Broncos, così come le altre due brutte sconfitte dei Chargers, fra cui quella abbastanza simile datata appena otto giorni fa, hanno si un responsabile, che sia Rivers o meno, ma soprattutto hanno uno ed un solo colpevole: coach Turner appunto, ed io mi propongo di dimostrarlo in pochi, semplici ed essenziali punti.

1 La difesa. Tanto per isolare il problema parliamo della difesa.
Chi sa spiegare come sia possibile che la difesa dei Chargers sia in grado di reggere gli attacchi senza praticamente alcun problema fino all'intervallo e poi finisca invariabilmente sovrastata dagli avversari?
Se un QB come Peyton Manning scrive 15/16 negli ultimi due quarti della partita (quando essendo valanghe di punti indietro è per giunta costretto a lanciare) mentre nei primi due quarti segna a statistica un ben più modesto 9/14 con meno di un terzo delle yards guadagnate e un intercetto è forse colpa dei turnovers di Rivers?
Un solo punto di riflessione è sufficiente per dimostrare come sia pessima la gestione delle partite da parte del coaching staff dei Chargers, la gestione dei cornerbacks.
La offseason di AJ Smith ha consegnato a Turner una squadra zoppa in almeno due punti, uno dei quali è la posizione di cornerback dato che a roster San Diego ha appena tre giocatori in grado di giocare in maniera appena passabile in quella posizione, ed uno di questi è quel Gilchrist che si è fatto soffiare la palla da Stokley e poi non è riuscito a sbilanciarlo per fargli mettere un piede fuori dal campo, e già questo dovrebbe bastare.
Gli altri, i titolari, sono Jammer e Cason, dei quali sono ampiamente noti i limiti: il primo, ormai invecchiato, è ancora in gamba sotto il profilo fisico ma soffre terribilmente i ricevitori veloci, il secondo invece pur coprendo bene gli avversari veloci è spesso sovrastato sul piano fisico.
Il coaching staff dei Chargers gioca oltre il novanta per cento degli snaps difensivi con questi due CB e li tiene sempre invariabilmente nella stessa posizione; all'intervallo i coach avversari hanno un quarto d'ora in cui possono comunicare liberamente fra loro e invariabilmente dopo l'intervallo piazzano il ricevitore più fisico su Cason e quello più veloce su Jammer. Risultato: il mismatch è tale che anche se gli attacchi avversari consegnano alla difesa Chargers il disegnino con lo schema che stanno eseguendo quest'ultima non riesce a fermarlo, così come non c'è verso di vedere per uno snap le posizioni dei due cornerback invertite.
Su Bleacher report se ne sono accorti diversi commentatori dilettanti, possibile che dopo sei partite un coaching staff pagato profumatamente non sia ancora riuscito a porre in essere nessun correttivo per questo problema?
Vogliamo parlare di come sia possibile che giocatori fisicamente forti siano così immaturi da vanificare i big plays dei colleghi con falli stupidi come quello che domenica notte è costato un intercetto riportato in TD (e con quello di Ingram su Brees domenica scorsa siamo al quarto turnover vanificato da un fallo) mentre ancora non si sia trovata una soluzione oppure dobbiamo continuare a dare la colpa ai turnovers di Rivers se la difesa californiana, in quelle che una volta si chiamavano "situazioni di ovvio passaggio", concede mediamente tre secondi e mezzo ai QB avversari e lascia liberi due ricevitori nonostante tutti gli eleggibili evitino come la peste la zona che sta dieci yarde intorno a Weddle?

2 La gestione delle situazioni di gioco. Se la pessima gestione della difesa può essere divisa con il resto del coaching staff la gestione della partita è compito esclusivo del capo allenatore, ed anche sotto questo profilo Norv Turner si sta dimostrando ampiamente carente.
Già durante la offseason, in accordo col GM Smith, la famiglia Spanos decise di affiancargli un paio di assistenti che lo aiutassero nella gestione ordinaria delle situazioni di gioco perché nel football moderno sono talmente tanti i fattori e le variabili in gioco che il capo allenatore dovrebbe essere sempre presente mentalmente per gestirle, ma soprattutto perché Turner, nonostante sia stato invitato più volte a farlo, non ha mai voluto rinunciare a chiamare personalmente i giochi (già io lo avrei licenziato per questo prima dell'inizio della stagione, figuriamoci poi dopo i pessimi risultati che vedremo al punto 3...).
Lasciamo perdere il fatto che sia mal consigliato quando decide di sprecare i challenge, e di conseguenza i timeouts, per situazioni (come contro i Chiefs) in cui dalla dinamica dell'azione è palese che gli arbitri abbiano tutte le ragioni, che dire di come i signori con la maglia a strisce stanno trattando la squadra del sud della California?
Lasciando perdere i tre "contatti illegali" consecutivi chiamati a difensori che non hanno neanche toccato l'uomo nel drive finale della sconfitta contro i Saints (col commentatore NBC Collinsworth che dichiarava in telecronaca "non so se siano peggio gli arbitri che si inventano i falli o Turner che se ne sta zitto sulla sideline", fonte Bolts from the blue) domenica scorsa un arbitro di linea ha chiamato due procedure illegali a Rivers: una per aver mosso le mani in una shotgun e un'altra per aver girato la testa mentre era sotto al centro (stava chiamando un audible). Bene, lunedì notte contro i Broncos lo stesso arbitro ha fatto esattamente la stessa cosa mentre Manning continuava tranquillamente a gesticolare nel backfield e a muoversi senza che nessuno degli arbitri prendesse provvedimenti.
Niente che abbia deciso la partita, per carità, ma è possibile che quest'uomo sia talmente passivo in panchina da non alzare mai la voce con la crew neanche se gli arbitri lo prendono a calci nel sedere? Qui, come sospettano diversi tifosi citando non precisate fonti interne, non si tratta di signorilità e di sportività, piuttosto è il fatto che Turner è talmente concentrato nel suo lavoro di offensive coordinator da non seguire le dinamiche attraverso le quali si snoda il match intorno a lui.
Peccato che gli Spanos paghino Hal Hunter per fare quel lavoro, invece di fare il secondo allenatore della linea d'attacco.
Fra l'altro Turner è talmente preso dal chiamare i giochi che nessuno, né lui né il suo coaching staff si è accorto che Jared Gaither, il left tackle e quindi, in altre parole, colui che è chiamato a proteggere il lato cieco di Rivers, ha giocato l'ultimo drive di attacco della partita contro i Saints zoppicando per un infortunio alla caviglia, e guarda caso è stato il suo uomo che ha effettuato il sack che è costato il fumble che ha chiuso la partita di domenica scorsa. Tutta colpa di Rivers se fa fumble quando lo colpiscono dal lato cieco perché il left tackle zoppica e nessuno se n'è accorto?
Ultimi, ma non meno importanti, sono i dubbi avanzati da più parti sulle capacità di Turner come "motivatore": nessuno pretende che li prenda a calci nel sedere oppure gli sputi in faccia come faceva Bill Cowher, ma certo l'ultima cosa che i tifosi vorrebbero vedere è un allenatore che conversa tranquillamente con l'upper back col game plan davanti la faccia mentre i suoi giocatori stanno psicologicamente franando come squadra e dilapidando un patrimonio di 24 punti.

3 Il play calling. Se tutto ciò di cui abbiamo parlato prima è responsabilità più o meno indiretta di Turner il play calling invece è una sua responsabilità diretta, anzi lo è doppiamente perché è una responsabilità che ha preteso ed una prerogativa che ha voluto mantenere ad ogni costo.
Peccato che il play calling dei Chargers, effettuato direttamente da Turner, sia uno dei peggiori, più assurdi, illogici e cervellotici che si siano mai visti negli ultimi trent'anni di NFL. E quel che è peggio è pure uno dei più prevedibili.
Chiunque abbia visto tre partite di una qualunque stagione dei Chargers si sarà certamente accorto che non appena San Diego finisce sotto di più di tre punti, non importa quanto manchi alla fine della partita, immediatamente il running game va in soffitta, Rivers finisce in shotgun già dal primo down e le difese avversarie si schierano in nickel e tolgono i linebackers, sostituendoli con pass rushers e defensive backs mettendo pressione, coprendo il campo e aspettando i lanci di Rivers come il ragno aspetta la mosca nella ragnatela. Finché era un elite QB Rivers riusciva a rimontare e vincere anche alcune di queste partite, anzi, lo è diventato per la capacità di riuscire a completare i passaggi anche quando tutti nello stadio sapevano cosa avrebbe fatto; adesso lo conoscono meglio, è più vecchio ed indubbiamente molto meno accurato specie sul profondo (vedere il primo intercetto di ieri, che comunque non sarebbe stato decisivo) ma soprattutto le difese avversarie hanno imparato che quando viene colpito dal lato cieco è molto più portato a perdere la palla (e sovraccaricano il blind side). Tutti si sono accorti di questo tranne l'unico che ha la responsabilità di chiamare gli schemi: coach Turner.
Se Turner è prevedibile strategicamente quando la squadra va in svantaggio è prevedibile anche tatticamente, cioè nel chiamare gli schemi nel corso dei down.
Se al primo down lancia un passaggio incompleto o un gioco di corsa non guadagna più di tre yards, al secondo down viene sempre chiamato un lancio tanto che io mi sono inventato un giochetto con mia figlia guardando gli ultimi due match dei Chargers: dopo un primo down io gli dico "oltre quattro yards" oppure "meno di quattro yards" e lei mi risponde con "corsa" o "lancio". Ha azzeccato il 70% delle azioni chiamate da Turner al secondo down. Figuriamoci cosa può fare un coaching staff che analizza le partite al computer.
Quello della prevedibilità sarebbe già un problema serio, ma purtroppo non è l'unico. Molti commentatori del sud della California come ad esempio Jim Canepa del San Diego Union Tribune, da sempre considerato voce critica nei confronti dei Chargers, gli contestano insieme alla prevedibilità del play calling la pessima gestione del RB Ryan Mathews, molto talentuoso, ma piuttosto portato a commettere fumble.
Secondo Canepa Mathews non matura sotto questo profilo perché il coach non gli concede mai una seconda chance: ogni volta che commette un fumble lo spedisce a dormire in panchina per tutto il resto della partita, come ha fatto dopo il fumble commesso contro i Falcons.
Vorrei dire a Canepa che purtroppo il problema è peggiore di come lo vede lui: Turner ha spedito Mathews in panchina anche dopo il suo TD del terzo quarto di domenica scorsa, con i Chargers avanti ed ha smesso di correre con la palla nonostante avesse a fianco un RB che in 12 portate ha prodotto 80 yards di guadagno per una media di 6,7 yards a portata. In compenso Turner ha chiamato dodici passaggi consecutivi ed ha ottenuto dal suo QB due turnovers, entrambi in occasione di passing play.
Ben lungi dall'aver imparato la lezione Turner ha replicato durante l'ultimo monday night: Rivers avrà pure commesso troppi errori, come lui stesso ha ammesso, ma non è naturale una partita in cui il QB della squadra che è stata indietro nel punteggio per quattro quinti del match lanci il 25% di passaggi in meno, così come non rientra nella logica delle cose che un coach continui a selezionare più lanci che corse indipendentemente da quelli che sono il punteggio ed il cronometro, dimostrando di non avere la più pallida idea di come si gestisce una partita.

Anche volendo tralasciare le altre gravissime manchevolezze, a fare di Norv Turner un ex head coach sarebbe più che sufficiente questo.

domenica 7 ottobre 2012

The infield fly rule

"We don’t understand the infield fly rule, either" era scritto sul profilo ufficiale di Twitter delle MLB fino a ieri.
Da oggi questa frase è sparita.
Del resto agli arrabbiatissimi tifosi dei Braves continuare a leggerla avrebbe probabilmente aggiunto beffa allo scorno ed avrebbe sparso altro sale sulla ferita aperta al Turner Field, parte bassa dell'ottavo inning di una partita secca che decide la sorte di ben 162 partite di stagione regolare: la vincente va alle Divisional Series contro Washington, la perdente non va da nessuna parte.

Torniamo per un attimo al Turner Field, terreno di casa degli Atlanta Braves, dove ai St. Louis Cardinals mancano cinque eliminati per capitalizzare il vantaggio di 6-3 determinato da una serie disastrosa di errori dei padroni di casa e vincere quella che finora è la partita più importante della stagione.
Con i corridori in prima e seconda base, un eliminato, si presenta al box di battuta Andrelton Simmons, rookie dalle Antille Olandesi, che gira la mazza ed alza la palla in quello che in termine tecnico si chiama "pop", una battuta alta e poco profonda. La palla comincia a scendere in una zona esterna alle basi verso la sinistra del campo e su di lei convergono l'interbase dei Cardinals Pete Kozma e l'esterno sinistro Matt Holliday.
Kozma sembra ben posizionato sotto la palla ma mentre questa sta per cadere a terra si sposta in avanti, probabilmente perché crede di aver sentito il "lascia" del compagno e la palla cade a terra. I commentatori della TBS alzano i toni della voce parlando di "miscommunication" mentre i corridori di Atlanta riempiono le basi, poi all'improvviso cominciano a non capire cosa è realmente successo finché uno dei due afferma "An infield fly rule has been probably called" ma per un po' nel box di commento si manifestano perplessità.
Perplessità che invece non si avvertono in campo dal momento che i coach dei Braves innescano immediatamente una serie di battaglie verbali con gli arbitri mentre i tifosi cominciano a tirare in campo tutto quello che gli capita fra le mani determinando un ritardo di 19 minuti nella ripresa del gioco.
Il "responsabile" del fattaccio è l'umpire Sam Holbrook che, un poco prima che la palla tocchi terra, alza il braccio dichiarando inappellabilmente che il gioco è un infield fly, eliminando il battitore e riportando i corridori in prima e seconda.

Capire cosa è realmente successo e perché non è semplice, visto che sono le stesse MLB a dichiarare che la regola dell'infield fly non la capiscono neppure loro, ma dopo essermi districato fra accuse di "barzelletta" e di "più grosso errore di sempre ai playoffs", provenienti nella maggior parte dei casi da giornalisti, opinionisti e tifosi controbilanciate dalle difese non troppo di circostanza della MLB e di arbitri ed esperti di regolamento, che parlano di "interpretazione esatta", mi sono fatto una buona idea.
La regola nasce nel 1895 e venne introdotta dalla National League sostanzialmente per proteggere la squadra in attacco da un trucchetto che era diventato abbastanza popolare fra le varie difese: lasciar cadere intenzionalmente la palla a terra in modo che i corridori fossero costretti a lasciare le basi e poi lanciare la palla in terza base (e da lì in seconda ed eventualmente in prima) e papparsi gli attaccanti come foglie di carciofo. Essa prevede che una Infield Fly è una palla alta (non un lungolinea e neanche una smorzata) che possa essere presa da un infielder (cioè un giocatore schierato fra le basi o al loro interno, compresi lanciatore e catcher) con ordinary effort (cioè nello svolgimento naturale del gioco) e si applica quando la prima e la seconda base, oppure la prima, la seconda e la terza, sono occupate e la squadra in attacco ha meno di due giocatori eliminati. La regola prevede che la chiamata debba essere effettuata immediatamente nel momento in cui l'umpire si rende conto che la palla alta è un infield fly (ciò è a beneficio dei corridori) e comporta l'eliminazione immediata del battitore. In altre parole nel momento in cui viene chiamata l'Infield Fly è come se il battitore fosse stato eliminato con una presa al volo e quindi i corridori devono toccare il cuscino delle basi da cui poi possono eventualmente rubare come succede nelle "sacrifice fly".
Sul fatto che potesse essere presa da un infielder non vi sono dubbi: Kozma lo è e si trovava sotto la palla, perciò è anche palese che la potesse prendere al volo con "ordinary effort" (ed il fatto che si parli di ordinary effort rende l'applicazione della regola molto discrezionale da parte dell'arbitro: in una situazione simile, nelle World Series del 2008 un umpire non l'ha applicata perché ha ritenuto che la palla non fosse prendibile al volo con ordinary effort causa vento e pioggia forti); le perplessità sono tutte incentrate sull'avverbio "immediatamente".
Secondo la maggior parte dei detrattori la chiamata sarebbe arrivata con ritardo colpevole ed alcuni rappresentanti dei tifosi hanno accusato senza mezzi termini Holbrook di aver deciso di applicare la regola solo quando si è reso conto che i difensori dei Cardinals avevano fatto un pasticcio, levandogli così elegantemente le castagne dal fuoco.

La parola, per me definitiva, l'ha pronunciata ieri sera su Baseball Tonight il Mike Pereira di ESPN quando ha definito la decisione "controversal" ma ha detto che ancor di più lo sarebbe stato non fare la chiamata e poi vedere Holliday che tirava in seconda e chiudeva l'inning con un doppio gioco ed infine ha concluso con un "maybe a little late, but Holbrook made the right call".

La chiamata quindi è giusta, ma la reazione del pubblico è stata abbastanza violenta specialmente per me che ho dello sport americano la visione idilliaca di quel tifoso dei Raiders seduto accanto a me al Qualcomm Stadium il 26 gennaio 2003 durante il Superbowl XXXVII che, mentre la sua squadra veniva letteralmente fatta a pezzi dai Buccaneers, continuava ad inveire, sbraitare e maledire i suoi giocatori fino alla settima generazione passata e futura. Al termine del match, quando lo salutai e gli dissi che mi dispiaceva per lui e per la sua squadra mi guardò come se fossi un extraterrestre e poi cominciando a giocare col figlio mi disse:"It's a game!".
Vedendo il pubblico del Turner Field ho l'impressione che non sia più così.

martedì 18 settembre 2012

Vittime o crumiri?

Domenica scorsa, seconda giornata NFL di sciopero degli arbitri e con in campo le crew arbitrali "di riserva". A 9:47 dalla fine del primo quarto di Tennessee Titans vs. San Diego Chargers, il QB di San Diego, Rivers, lancia un pass nella end zone dei Titans, destinato al ricevitore Malcom Floyd.
Floyd si tuffa, agguanta il pallone sotto gli occhi sconsolati della safety dei Titans, che si lascia pure andare ad un mezzo gesto di disappunto, poi si rialza e si prepara a festeggiare il TD ma improvvisamente si rende conto che qualcosa non va e si volta a guardare l'arbitro di fondo campo.
Questi è fermo con le braccia lungo i fianchi: non alzate ad indicare la segnatura ma neanche incrociate ad indicare il passaggio incompleto; fermo, ma con la testa e gli occhi che si muovono quà e là in cerca di un collega che abbia visto meglio, oppure che voglia prendersi la responsabilità di assegnare o negare i punti.
Dopo alcuni interminabili istanti l'arbitro si rende conto che è solo sua la responsabilità ed allora segnala il passaggio incompleto. Mentre Floyd stizzito scaglia il pallone lontano parte la sarabanda dei replay televisivi e, subito dopo il primo, uno dei commentatori della CBS afferma che "l'arbitro ci ha pensato un po' troppo, ma la decisione è giusta" proprio mentre va in onda un secondo replay che pare smentirli entrambi, o almeno così la pensa lo staff dei Chargers visto che, in una situazione che potrebbe tranquillamente non richiederlo (primo e goal e con ancora un sacco di tempo sul cronometro), il coach Turner lancia il fazzoletto rosso e sfida il capo arbitro a rivedere l'azione e la decisione.
Il capo arbitro si avvia verso il reply boot e inizia a rivedere l'azione, una due, tre, cento volte e da una, due, tre, tutte le angolazioni possibili delle riprese TV ed infine, dopo OTTO minuti di attesa, segnala che la decisione rimane perchè dalle immagini non emerge la chiara prova che sia sbagliata scatenando l'ironia del commentatore di prima che, ormai convinto del contrario e punzecchiato dal collega, conclude con "è una decisione buona come un'altra".

Proprio da quest'ultima affermazione vorrei far partire la mia analisi, precisando innanzitutto che ho scelto questo caso, fra i mille possibili altri di una sfortunatissima, per le raccogliticcie crews di riserva della NFL, seconda giornata solo perchè l'ho vissuto in diretta al contrario dei documentatissimi errori di Redskins vs. Rams (tanto per citare una partita fra le più criticate) ed anche perché, pur coinvolgendo la mia squadra, è una decisione che oltretutto ci può anche stare perché neanche io sono così convinto come lo staff Chargers che Floyd abbia dimostrato per tutto il percorso dell'azione di avere il possesso della palla.
Una decisione buona come un'altra, si diceva e così a mio avviso dovrebbe essere se ci si decide ad affrontare lo sport nella corretta maniera in cui dovrebbe essere affrontato: gli arbitri sono parte del gioco e anche i loro errori ci dovrebbero stare.
Consideriamo intanto che dopo la sospensione delle trattative, voluta dal commissioner, la lega (e quindi l'insieme dei proprietari, perché sono loro che comandano, non come nel calcio nostrano in cui non si capisce se sia una federazione o una lega che spesso si trovano in antitesi) ha deciso di affidarsi a quelli che sono stati chiamati "scrums": arbitri provenienti dal college football, dall'arena football oppure ritirati per inadeguatezza o motivi d'età.
Costoro hanno passato l'esame sul libro del regole, e tutti a pieni voti secondo il commissioner NFL Goodell, ma questo ovviamente non significa che alla prova sul campo siano all'altezza di coloro che sono chiamati a sostituire, così come un cuoco eccellente tra i fornelli di casa non è assolutamente detto che sia in grado di cucinare degli spaghetti in modo impeccabile fra i fornelli di Hell's Kitchen mentre magari Gordon Ramsey lo copre dei più fantasiosi insulti mai apparsi nell'Oxford Dictionary.

Al di là degli errori marchiani e clamorosi, perché anche i migliori che ora sono in sciopero ne commettono, quello che è purtroppo in discussione è tutto il resto, cioè quello che trasforma un conoscitore eccellente delle regole in un vero arbitro: il coraggio di prendere le decisioni rapidamente e di difenderle, l'autorevolezza nel trasmetterle ai giocatori ed il polso con cui fa capire a chi è in campo che "l'unica opinione che conta qui è la mia" come disse un arbitro di baseball a Babe Ruth che gli contestava di essere l'unico nello stadio ad aver sbagliato a giudicare un lancio.

Tutto questo lo sanno tutti, giocatori, tecnici, proprietari, commissioner, giornalisti e perfino gli arbitri stessi, così come tutti sanno anche che senza questi "crumiri", mancando un accordo col sindacato arbitri, non c'è gioco e senza gioco non ci sono incassi e stipendi, e non c'è neanche troppa materia di cui discutere dal lunedì alla domenica successiva.
Sarebbe perciò opportuno che gente come Flacco, invece di affermare che "così si falsa il gioco" rifletta un po' di più su quanti passaggi ha indecentemente tirato lontano dai ricevitori.
Si accorgerà così, come tutti, che è troppo facile mirare sulla parte più debole e fare fuoco invece di focalizzarsi sui propri errori e prendersi le proprie responsabilità.

Difficile, anche se non impossibile, ma del resto niente nella vita è facile, perciò la prossima volta che ognuno di noi dal salotto di casa propria è pronto a mandare a quel paese l'arbitro crumiro perché ha sbagliato una decisione farebbe bene magari a pensare che quell'incompetente incapace con la maglia a striscie si è preso quella responsabilità, ed è grazie a questo che noi dalla poltrona possiamo vedere la partita e criticarlo.
Anche se talvolta è lecito pensare che queste responsabilità siano un po' troppo grandi per lui.

lunedì 18 giugno 2012

Charger per sempre

Quando nel gennaio 2001 i Chargers, peggior squadra NFL della stagione 2000, assumono John Butler, fresco di licenziamento dai Buffalo Bills, e quest'ultimo chiama Norv Turner ad allenare l'asfittico attacco californiano nessuno immagina che si stanno gettando le basi per una decisione che cambierà in parte la storia di una squadra e sicuramente la storia di un grandissimo uomo, grande anche come giocatore.
Alla vigilia del draft infatti, dopo numerose analisi, Turner, che certo non è un cuor di leone, manifesta tali e tante perplessità su Michael Vick, quarterback da Virginia Tech e prima scelta assoluta "naturale" del draft 2001, che Butler si convince a passare e cede, in cambio della quinta scelta assoluta più altre scelte marginali, il diritto di prima assoluta agli Atlanta Falcons.
Colui che verrà soprannominato "Il ciccione" subirà valanghe di critiche per aver ceduto la prima scelta, critiche che non si dissipano neanche quando viene annunciato che i Chargers, con la quinta assoluta, "scelgono Ladainian Tomlinson, running back from Texas Christian".
I tifosi furono esaltati dai numeri (oltre 2000 yards corse da senior) e dal fatto che a parte Natrone Means, che trascinò di peso i Chargers al loro primo e unico Superbowl, a San Diego non ha mai giocato un RB dominante.
Buona parte dei critici invece ritenne che lo scambio della prima scelta non fosse stato un affare ma, soprattutto, che i numeri di LT, come verrà presto chiamato dai tifosi usando le sue iniziali, difficilmente potevano essere replicati in un attacco professionista perché ottenuti in un sistema "option", soluzione che nella NFL non si usa.
Già dal 9 settembre 2001, all'esordio contro i Redskins, la maggior parte dei critici probabilmente iniziò a capire che si sbagliava.

Da allora è storia di un amore che verrà ripagato dai numeri nonostante l'amarezza di non essere mai arrivato al Superbowl, ed i Chargers con lui.
Il titolo di rookie dell'anno è una semplice formalità, nonostante Vick, e da allora è un crescendo di performances che culminano con la stagione 2006 in cui non solo vince il titolo di giocatore dell'anno, ma batte il record per il maggior numero di punti segnati un una stagione, detenuto dal kicker Paul Hornung dal lontano 1960.
La stagione 2006 però non è solo gioia per LT, ma anche dolore come per tutti i Chargers che entrano con un record di 14-2 nei playoffs come squadra migliore della NFL e ne escono sconfitti in casa alla prima di post season a causa di una "strana" chiamata dell'offensive coordinator Cam Cameron che, con l'MVP della stagione nel backfield su un terzo e corto a pochissimo dalla fine chiama un passaggio invece di dare la palla ad LT, non chiude il down e perde la partita.
Qui emergono le qualità dell'uomo, che i tifosi dei Chargers già conoscono dal cuore con cui ha giocato la seconda parte della stagione 2005 con una costola rotta, in quanto "il più umile campione dello sport professionistico moderno" (Clark Judge, CBS Sport) rifiuterà ogni polemica difendendo a spada tratta le scelte del coaching staff e scusandosi perché "non ero al 100% in quel momento per via di una botta al piede. Chi può criticare i coaches per non aver voluto rischiare?"

LT regalerà ai Chargers un'altra grande stagione, quella del 2007, in cui sarà ancora il miglior corridore della Lega, ma la formidabile delusione dell'anno prima resterà scolpita nel cervello e nei cuori di tutti ed il calo fisiologico di rendimento lo porterà a lasciare i Chargers per i Jets, nel 2009, con qualche piccolo strascico polemico determinato anche dal troppo amore fra il runner e la sua squadra.

Oggi, nel giorno in cui lascia ufficialmente come Charger, onorando la squadra e la città che lo ha amato come un figlio venendone onorato e riamato a sua volta, non vorrei ricordare la meravigliosa sensazione che dava a noi tifosi saperlo nel backfield pronto a trasformare in magia ogni palla gli venisse affidata e neanche ricordare le impressionanti statistiche che non ho ancora citato o la favolosa duttilità (uno fra i sette della storia a segnare TD su corsa, ricezione e passaggio nella stessa partita) quanto piuttosto che uomo sia LT al di là del football.
Lo farò con le parole di Shawne "lightouts" Merriman, compagno di squadra nelle sue migliori stagioni ai Chargers, che su Twitter ha scritto: "Oggi lascia l'attività non solo il più grande atleta con cui abbia mai giocato, ma anche la più grande persona che mi abbia mai onorato della sua amicizia"

Tanti auguri per la tua vita da non atleta, LT e arrivederci a presto dalle parti della Hall of Fame di Canton, Ohio

sabato 9 giugno 2012

La rinascita dei Trappers

C'erano una volta I Trappers... e ci sono ancora!
Sono passati quasi trent'anni da quando un gruppo di giovani appassionati di questo sport americano, animati solo dai sogni e dalla loro passione (così era scritto sui quotidiani locali all'epoca, e così ha detto, non senza retorica, lo speaker oggi allo stadio) fondò una squadra di football.
Di football, non di football americano, perché lo sport che va per la maggiore e che ne usurpa il nome, il calcio, si chiama soccer in inglese.
La storia parla di alcuni campionati giocati, nella seconda metà degli anni ottanta, arrangiandosi fra migliaia di difficoltà economiche ed autofinanziamento: ospiti del campo gestito dalla locale società di rugby (terreno comunale ma gestito dai rugbisti come proprietà esclusiva) per le partite interne e facendo pagare l'autobus ai familiari al seguito per le trasferte; sempre comunque costretti a tirar fuori qualcosa di tasca perché la questua sull'autobus non era sufficiente a pagare l'autonoleggio e gli incassi delle partite non bastavano a pagare contemporaneamente la gestione del campo e gli arbitri.
Avete capito bene: pagare gli arbitri; non per corromperli ma perché in quell'epoca pionieristica lo sport la cui finale, il Superbowl, era (ed è) lo spettacolo televisivo più visto in America, in Italia non aveva neanche i soldi per mandare gli arbitri a fare il proprio lavoro a spese della Federazione e quindi il costo del gruppo arbitrale se lo accollava la squadra di casa.
In quei giorni vissuti al fronte i Trappers si arrangiavano, creando fra loro un'amicizia forte perché nata fra mille ostacoli e cementata da una grande passione, ma la passione alla lunga si esaurisce se non confortata dai risultati perciò, privi di sostegno economico, di ricambi fra i giocatori e di risorse tecniche, anche la passione dei Trappers alla fine degli anni ottanta si spense.

Nei successivi venticinque anni i Trappers sono vissuti nel ricordo di chi ha condiviso quell'avventura e negli aneddoti che i protagonisti hanno continuato a raccontarsi puntualmente quando si incontravano per strada oppure davanti ad un aperitivo.
Fino ad oggi.
Oggi, alle cinque della sera, i Trappers (non dei giovincelli vestiti delle stesse maglie e con lo stesso nome sul casco, bensì i Trappers di trent'anni fa) sono scesi di nuovo sul campo di football!
E che campo! Non il vecchio campo rugby comunale ma "Lo Stadio" per antonomasia, quello riservato a sua maestà la squadra di calcio e che i ragazzi dell'84 potevano solo sognare.
L'occasione è stata una partita di beneficenza con i veterani dei Condors Grosseto ma è stato un qualcosa che credo sia andato al di là delle più rosee aspettative di chiunque.
Mi è dispiaciuto essere tra quelli che, protagonisti trent'anni fa, non lo sono stati oggi, ma la vita porta a fare delle scelte e io non rimpiango le mie, però ho voluto lo stesso assistere alla festa e già fuori dallo stadio ho sentito uno strano brivido lungo la schiena arrivare fino alla gola e lì fermarsi senza voler andare né sù né giù come un groppo d'emozione o di commozione.
Vedere la tribuna dello stadio completamente piena mi ha lasciato del tutto incredulo, ripensando a quando una faccia nuova sulla tribuna era inequivocabilmente un familiare di un atleta della squadra ospite, e non mi vergogno a dire che mia figlia ha visto suo padre, quasi cinquantenne, piangere vere lacrime quando Giuliano Orlandini è stato chiamato al centro del campo per l'omaggio al figlio.

La partita, in questo insieme di emozioni, è stata marginale anche se devo ammettere che pensavo di trovare i miei vecchi amici in condizioni peggiori di forma nonostante gli avversari abbiano dimostrato di essere fatti di ben altra pasta.
Sarebbe facile dire che il risultato non conta, ma non è esattamente vero: il punteggio del match non conta, ma il risultato del match è importante, ed è che i Trappers giocano ancora, e lo faranno a lungo!

sabato 10 marzo 2012

Il salary cap spiegato

Lunedì prossimo è un giorno decisivo per le sorti delle 32 squadre NFL ed anche per molti giocatori.
Inizia infatti ufficialmente la stagione 2012, perciò ogni squadra può iniziare legalmente a firmare i free agents delle altre. Ma l'inizio della nuova stagione porta con sé un'altra conseguenza: tutte le squadre NFL devono riportare la situazione contrattuale complessiva dei propri giocatori al di sotto del limite stabilito: il salary cap.
Questo spiega il motivo per cui in questi giorni le news, i blogs, i tweet, sono pieni di notizie di giocatori tagliati e di contratti ristrutturati: entro lunedì tutti devono essere sotto il limite stabilito per il 2011 e devono avere disponibilità (il cosiddetto "room", lo spazio sotto il tetto) per poter firmare i giocatori lasciati liberi dalle altre squadre o con il contratto scaduto.
Ma cosa fa si che quando viene stipulato un nuovo contratto sovente il guadagno di un giocatore cresce ma aumenta anche la disponibilità sul cap invece di diminuire come sarebbe logico?
Come è possibile che alcune squadre non possono permettersi troppi giocatori di talento mentre altre che ne hanno in abbondanza fanno la parte del leone anche sul mercato free agents?
Tutto questo dipende dalle complicatissime regole che determinano il reale valore di un salario e ne fissano le conseguenze sull'anno corrente e su quelli futuri. Se anche voi siete così curiosi, come lo sono stato io quando ho deciso di capire il meccanismo, e soprattutto non vi fate spaventare dalla noia e dalla complessità dell'argomento, potete proseguire a leggere e alla fine, forse, ne saprete di più.

Posto intanto che il tetto salariale è uguale per tutte le squadre (rappresenta una percentuale sui guadagni complessivi della Lega, calcolati secondo una formula matematica, divisa per 32, cioè il numero delle squadre che compongono la NFL) e dato che rappresenta il limite complessivo di quanto una squadra può spendere in stipendi per tutti i propri giocatori (non il limite singolo), la logica suggerisce che sarebbe sufficiente prendere il valore complessivo del contratto di un giocatore e dividerlo per il numero degli anni di durata per avere l'ammontare da sottrarre al salary cap; sommando poi tutti i valori così ottenuti il conteggio del cap diventerebbe una pura somma algebrica.
Fosse così semplice!
In realtà non appena è stata formulata la regola ogni avvocato, GM e procuratore che orbita nell'ambito della NFL ha iniziato a pensare come aggirare la norma stessa, in virtù di quel principio che dice "Più bravi sono i giocatori e più vogliono guadagnare, perciò se vuoi avere una squadra vincente devi pagare più stipendi degli altri".
Da qui il moltiplicarsi di trucchetti e scappatoie che ha reso i contratti con i giocatori più complicati del decreto milleproroghe e la contabilità del salary cap più complessa del bilancio di un ente pubblico.
Premetto subito che sono d'accordo con chi afferma che sarebbe stato molto più semplice che la regola non consentisse deviazioni, invece di cercare di catalogarle tutte e pretendere addirittura di prevedere e regolamentare anche quelle cui nessuno ha ancora pensato, ma i soloni della NFL hanno invece ritenuto migliore consentire il moltiplicarsi dei "pagamenti striscianti" perciò non ci resta che cercare di capire come è composta la parte "remunerativa" di un contratto e capire come viene calcolata ai fini del salary cap: cioè, per chiarire un termine che userò spesso da ora in poi, quale sia il suo "impatto" (la quota annuale che sommata a tutte le altre compone il totale) sul salary cap di una singola squadra.

Innanzitutto vediamo come è composto lo stipendio (il salary) di un qualunque giocatore NFL.
Le voci principali sono tre: il salario vero e proprio, i bonus e gli incentivi. Ai fini del calcolo dell'impatto annuale di queste tre voci deve essere tenuta in considerazione anche la durata del contratto.
Il salario naturalmente è il compenso annuale dovuto al giocatore e il suo impatto sul cap è completo nell'anno in cui viene percepito, anche nel caso in cui il giocatore finisca in lista infortunati (eccezione: se ha firmato la cosiddetta clausola split, che prevede il taglio dello stipendio in caso di infortunio, finirà sul cap solo la parte di stipendio che gli viene pagata). Inoltre, poichè il contratto non può essere rinegoziato fino alla seconda stagione successiva, è consentito alle parti di renderlo variabile anzichè fisso, cioè la cifra erogata al giocatore non deve necessariamente essere la stessa tutti gli anni.
La prassi perciò prevede che il salario vero e proprio è inizialmente più basso i primi anni e diventa più pesante, sia in termini economici che di impatto sul cap, negli ultimi anni.
Il vantaggio per i team è l'opportunità di rinegoziare il contratto dopo i primi due anni per ridurre l'impatto dell'aumento di stipendio programmato, ma sotto il profilo della pianificazione strategica caricare il peso dello stipendio puro sugli ultimi anni ha anche il vantaggio di alleggerire la situazione economica e l'impatto sul cap del contratto di un giocatore che venisse tagliato o smettesse di giocare per infortunio.
Agli incrementi contrattuali c'è un limite, per evitare che i contratti finiscano per pagare gli atleti solo negli anni cosiddetti "uncapped", dove il cap non è in vigore (ad esempio l'ultimo anno di validità del contratto collettivo, come la stagione 2010); il più celebre è la cosiddetta "30% rule" che impedisce incrementi superiori al 30% nell'anno finale del contratto e negli anni "uncapped".

Dato però che i contratti non sono garantiti, e niente spetta ad un giocatore che viene tagliato, non c'è vantaggio alcuno per un giocatore ad accettare un contratto che lo remunera nella parte finale della sua durata, e men che meno a ristrutturare un contratto proprio nel momento in cui comincia a pagarlo bene.
Per questo motivo nascono i bonus, il più celebre dei quali è il signing bonus, cioè il bonus alla firma che, per definizione, finisce tutto nelle tasche del giocatore nel momento stesso in cui viene firmato il contratto.
Il signing bonus è diventato talmente celebre, ed è talmente importante come componente del contratto, che tutti gli altri bonus vengono considerati "like signing bonus" (come il signing bonus) o "not like signing bonus" (diversi dal signing bonus).
L'impatto del signing bonus, e di tutti quelli "like", sul cap è pari al suo valore diviso per gli anni del contratto, ma per non più di cinque anni. In caso di ristrutturazione il signing bonus è meno conveniente per il team poichè il nuovo bonus si somma al precedente invece di assorbirlo e non è conveniente neanche in caso di taglio del giocatore, perché in questo caso tutto il residuo viene sommato ed ha impatto sul cap lo stesso anno o l'anno successivo a seconda della data in cui avviene il taglio determinando quella che potremo definire "accelerazione dell'impatto".
Conviene chiarire con un esempio: il nostro atleta firma con la sua squadra un contratto di quattro anni e strappa un signing bonus di un milione di dollari; l'impatto del signing bonus sarà di 250 mila dollari a stagione. Nel caso il contratto del nostro sia di sette anni l'impatto del signing bonus sarà di 200 mila dollari l'anno per i primi cinque anni, niente negli ultimi due. Se quest'ultimo contratto viene ristrutturato dopo tre anni e viene prolungato di due anni, cioè per quattro anni dalla nuova firma e con un signing bonus di due milioni di dollari, l'impatto sul cap sarà di 700 mila dollari (200 + 500) per le prime due stagioni successive alla ristrutturazione e 500 mila per le ultime due.
Se il nostro giocatore col contratto quadriennale dell'esempio sopra si rivelasse così scarso da essere tagliato dopo il primo anno i 750 mila dollari del signing bonus non ancora calcolati nel cap avrebbero impatto tutti insieme nella seconda stagione, appunto l'accelerazione.
Tutti i bonus di tipo "like signing bonus" si comportano esattamente come questo: hanno impatto sul cap nel momento in cui vengono erogati e da quel momento in poi vengono divisi per gli anni residui del contratto, o accelerano in caso di taglio, mentre i "not like signing bonus" hanno impatto sul cap nell'anno in cui vengono erogati e per l'intero ammontare del loro importo.
Vengono considerati "like signing bonus" tutti quei bonus che saranno erogati con certezza oppure che dipendono direttamente dalla volontà del giocatore, così come tutti i bonus "garantiti" che sono quelli che saranno pagati indipendentemente dall'abilità, infortuni o durata del contratto del giocatore; rientrano nella categoria "like signing bonus" anche i bonus per l'allungamento del contratto, quelli garantiti dall'esercizio dell'opzione di estensione del contratto per un anno così come anche tutti i roster bonus e workout bonus percepiti prima dell'inizio dei training camp, mentre nei "not like" rientrano obbligatoriamente tutti gli offseason bonus, come offseason roster bonus, offseason workout bonus (cioè il bonus pagato per partecipare agli allenamenti non obbligatori) e offseason reporting bonus.
I "signing bonus" hanno sempre impatto sul cap della squadra che li paga, indipendentemente dal fatto che il giocatore si ritiri (volontariamente o a causa di infortunio) o venga ceduto. In questi casi l'impatto sul cap è calcolato come nel caso del taglio: accelerazione; l'unica eccezione è la clausola di "refund" che tutela le squadre da giocatori che intascano il signing bonus e poi rifiutano di allenarsi o generano altri problemi: in alcuni precisi e regolati casi l'ammontare del signing bonus che il giocatore è chiamato a restituire al team viene escluso dal calcolo del salary cap.

Se tutto questo vi sembra complicato che ne dite di parlare degli incentivi?
Un incentivo è, appunto, un premio aggiuntivo che viene erogato al raggiungimento di determinati obiettivi che possono essere tanto legati alle performances sportive quanto personali e questo rende le cose particolarmente complesse tanto ai fini del loro calcolo (ed esiste un'apposita commissione di arbitrato per dirimere le controversie sugli incentivi fra proprietari e giocatori e stabilire all'atto della stipula del contratto se questo ha o meno impatto sul cap) che dell'impatto vero e proprio sul cap.
Per quanto riguarda gli incentivi la discriminazione è tra quelli definiti come "likely to be earned" (abbreviato in LTBE, significa che è probabile che sia guadagnato) e quelli "not likely to be earned" (NLTBE, l'aspettativa che sia guadagnato non c'è).
Ai fini del calcolo del cap valgono solo gli incentivi LTBE e rientrano in questa categoria anche tutti quegli incentivi che ho definito personali, che sono cioè legati solo alla volontà del giocatore come i bonus erogati se il giocatore riesce a rientrare in una determinata categoria di peso; gli NLTBE, anche se raggiunti, non hanno alcun impatto sul cap.
Ogni incentivo LTBE è calcolato nel cap nel momento esatto in cui è previsto dal contratto ma viene tolto non appena è evidente che non sarà raggiunto. Ad esempio, se un QB ha un incentivo in caso lanci senza intercetti le prime tre partite della stagione la somma che gli viene promessa ha impatto sul cap immediato, ma se alla seconda giornata subisce un intercetto la somma calcolata viene immediatamente decurtata. Non solo, ma un incentivo LTBE legato alle prestazioni che non viene raggiunto diventa NLTBE se previsto anche l'anno successivo.
Per definire gli LTBE legati alle performances sportive si prende sempre a riferimento la stagione precedente, anche se l'impatto sul cap è calcolato nella stagione in cui l'incentivo viene erogato, perciò se un QB ha come incentivo per questa stagione lanciare 15 TD pass e la scorsa stagione ne ha lanciati 20 l'incentivo è definito LTBE e avrà impatto sul cap per questa stagione.
Ecco perchè esiste un'apposita commissione d'arbitrato: come definire LTBE, ad esempio, gli incentivi sulle yards corse per un running back appena uscito dal draft e che non ha una stagione precedente alle spalle?

Giunti a questo punto, se fossimo un giocatore NFL o uno appena uscito dal college, sapremmo quanto pesano sul cap le varie voci del nostro contratto, ma se fossimo GM o comunque coinvolti nella gestione di un team le informazioni raccolte fino ad'ora non ci sarebbero sufficienti. Sapremmo infatti come bilanciare correttamente un contratto fra salari, bonus e incentivi per armonizzarlo in una strategia di medio-lungo periodo, ma non avremmo ancora il quadro completo di quanto poter spendere, poiché a comporre il cap infatti non ci sono solo i salari dei giocatori sotto contratto per così dire "ordinario" ma anche altre categorie di atleti che si trovano in situazioni per così dire "speciali".
I giocatori scelti al draft e non ancora sotto contratto infatti pesano sul cap: il loro impatto è definito "Rookie minimum active salary" ed ha effetto finché il giocatore non firma il contratto. Da quel momento il "minimo dei rookie" viene detratto dal cap mentre viene calcolato l'impatto del contratto. Da notare anche che ogni squadra ha a disposizione un bonus aggiuntivo sul cap che è uguale per ogni giocatore scelto e che dipende, ovviamente, dal numero di atleti chiamati al draft.
Anche i free agents hanno impatto sul cap: per i restricted viene calcolato un impatto chiamato "offerta qualificata", basata sul valore rivalutato dell'ultimo anno di contratto del giocatore, mentre per gli unrestricted ha impatto ogni offerta di contratto presentata, e per l'intero importo che avrebbe come se fosse un contratto, anche se non è ancora stata accettata.
Lo stesso avviene per i giocatori che ricevono il franchise tag: l'ammontare del loro contratto, calcolato dalla NFL, ha impatto immediato sul cap anche se il giocatore non ha ancora accettato (come è successo pochi giorni fa per Brees, che ha dichiarato di rifiutare la clausola: nel momento stesso in cui i Saints hanno dichiarato di esercitare il tag il valore calcolato dalla lega per i QB, 14 milioni e rotti di dollari, è stato sottratto dalla disponibilità della squadra di New Orleans).
Tutti questi oneri sui giocatori non effettivamente a roster sono temporanei: ogni contratto definitivo firmato da un giocatore in situazione transitoria comporta ovviamente il ricalcolo immediato, ogni cessione dei diritti del giocatore o una controfferta firmata da un'altra squadra e diretta al giocatore free agent comporta la cancellazione dell'importo dal cap, così come ogni importo viene detratto dal cap il martedì successivo alla decima giornata di stagione regolare se il restricted free agent, o il giocatore che ha ricevuto il tag, non firma e quindi rinuncia a giocare la stagione.

Per concludere questa lunga disamina non ci resta che chiarire cosa accade in caso di violazione di questa regola così complessa. Ebbene la regola non può essere violata!
Nel corso della stagione ogni intervenuta variazione che faccia uscire la squadra dal cap (come ad esempio il pagamento di un incentivo oppure la cessione o il taglio di un giocatore che comporti l'applicazione immediata dell'impatto del signing bonus) è segnalata e viene concesso al team un periodo di sette giorni per rientrare nel limite e finché non ha adattato gli è vietato firmare nuovi giocatori mentre, nel caso in cui il limite venisse violato da un nuovo contratto, questo non sarebbe ratificato: una apposita commissione della NFL riceve e studia il contratto prima che divenga effettivo e se questo fa uscire il team dal cap viene semplicemente respinto.
Nonostante tutto sono previste sanzioni sia al team (perdita di scelte al draft, sanzione già erogata sia ai Pittsburgh Steelers che ai San Francisco 49ers) che individuali (multe, già erogate a due dirigenti dei niners) perché qualche scaltro manager cerca comunque di aggirare le regole in maniera non del tutto trasparente.
Ma forse, visto quanto sono complesse, non è scaltrezza quanto piuttosto incomprensione...

venerdì 2 marzo 2012

Pillole NFL

I Philadelphia Eagles hanno piazzato il franchise tag sul ricevitore DeSean Jackson e si sono così aggiudicati il primo posto nella corsa al tag, mentre a Jackson viene garantito per quest'anno un salario di 9,5 milioni di dollari.
Nonostante la decisione sia apparsa prematura probabilmente è anche giusta: diversi top receiver saranno unrestricted free agents come Jackson il prossimo 13 marzo e molte delle squadre cui appartengono sono annunciate "aggressive" sul mercato perché pare che le pretese di giocatori ed agenti siano particolarmente elevate, anche a causa del fatto che lo stipendio garantito dal tag per i wide receivers è sensibilmente calato per effetto del nuovo accordo collettivo.

Secondo Adam Schefter di ESPN (e non solo secondo lui, almeno da ieri), i negoziati fra Drew Brees e i New Orleans Saints hanno raggiunto un punto di stallo tale da costringere i Saints medesimi a piazzare il tag su Brees alla deadline di lunedì prossimo.
I Saints e il giocatore vorrebbero giurarsi amore eterno, e quello sarà probabilmente il punto d'arrivo della trattativa ma per il momento il front office di New Orleans sembra più preoccupato di dare al giocatore quello che chiede sotto forma di bonus vari e incentivi piuttosto che di stipendio-base per non urtare troppo il salary cap, mentre il miglior quarterback degli ultimi 5 anni (primo in yards passate, TD pass e percentuale di completi e terzo in rating point) vorrebbe monetizzare le sue performances visto che i Saints hanno approfittato della dabbenaggine dei Chargers, che lo hanno praticamente regalato, e sono riusciti 5 anni fa a strappargli un contratto che, compresi tutti i bonus, non lo vede fra i dieci QB più pagati nonostante l'ultimo anno di contratto sia di regola il più ricco e remunerativo.
Il mancato accordo con Brees, ed il conseguente tag, sarebbero una doppia sciagura tanto sul piano economico, a causa dell'importo intorno ai 15 milioni di dollari che spetterebbe a Brees, quanto strategico e di mercato perché altri due giocatori di notevole importanza per l'economia di gioco dei Saints, la guardia Carl Nicks ed il ricevitore Marques Colston, entrambi largamente sottopagati rispetto al loro valore, godono di notevole stima da parte di altre squadre NFL e sono desiderosi di affrontare il mercato free agents e mettere da parte qualche soldo per la vecchiaia.

I Pittsburgh Steelers sono da tempo annunciati come una squadra destinata a decisioni dolorose per via dell'eccessivo valore dei contratti rispetto al tetto salariale.
Il front office non si è certo tirato indietro ed ha avviato una notevole serie di mosse a dir poco impopolari, rilasciando prima il miglior ricevitore di tutti i tempi della squadra, Hines Ward, (con 1000 ricezioni è ottavo assoluto nella storia NFL), poi la guardia Chris Kemoeatu e il defensive end Aaron Smith quindi, proprio poche ore fa, un altro glorioso veterano: il linebacker James Farrior, capitano e signal caller dalle cifre per la verità un po' "appannate" in quest'ultima stagione.
Pare che a Pittsburgh non intendano fermarsi qui. Del resto all'avvio della stagione l'analista di NFL Network Warren Sapp aveva definito gli Steelers "vecchi e lenti"; anche molto ben pagati aggiungerei, se è vero che il taglio di questi quattro giocatori (oltre quaranta stagioni giocate complessivamente) dovrebbe riportare il team al pari con il cap quando le previsioni di domenica scorsa li davano almeno 12 milioni sopra.

La off season dei San Diego Chargers si annuncia particolarmente complicata.
Il contestato GM AJ Smith aveva appena cominciato quei pochi tagli che può permettersi, a fronte di 19 unrestricted free agents che si trova a dover rinegoziare o sostituire, quando il destino gli ha messo i bastoni fra le ruote.
Con notevole anticipo gli Eagles hanno piazzato il loro franchise tag sul ricevitore DeSean Jackson che proprio Smith aveva indicato come potenziale sostituto per il free agent Vincent Jackson, un ricevitore con il quale Smith ha sempre avuto un rapporto burrascoso e che quest'anno, al contrario dello scorso anno, difficilmente riceverà di nuovo un franchise tag in quanto, per effetto del nuovo accordo collettivo, il tag su Jackson costerebbe ai Chargers la bellezza di 14 milioni di dollari (cioè quasi quanto il garantito di Drew Brees, se pure lui ricevesse il tag dai Saints). Pare quindi ripetersi la storia di Darren Sproles, "taggato" due anni fa con lo scopo di "poter contrattare con calma" e finito ai Saints con un quinquennale di valore complessivo pari al salario annuale garantito dal tag (non male come operazione, vero?).
Come se non bastasse la guardia Kris Dielman ha deciso di ritirarsi dopo una commozione cerebrale con perdita di sensibilità agli arti che lo ha tenuto fuori dal campo per tutta la seconda metà della scorsa stagione. Nessuno si sogna a San Diego di criticare la decisione dell'atleta, fra l'altro ponderata e presa dopo diversi consulti medici, ma è certo che il front office dei Chargers, che si trova causa infortuni e scarsi rendimenti a dover ricostruire metà della linea d'attacco, avrebbe preferito non dover affrontare il problema del quarto titolare partente della offensive line del 2011 che per un motivo o per un altro non sarà a roster nella stagione 2012.

Il protagonista della più spettacolare ricezione del 46esimo Superbowl, Mario Manningham, "al 75 per cento non giocherà la stagione 2012 con i campioni del mondo" per ammissione del suo agente.
I Giants hanno troppi free agents ed una situazione salariale pari a quella degli Steelers (fra i 12 e i 15 milioni di stipendi da tagliare per rientrare nel cap) e quindi non possono permettersi di usare il tag, specialmente su un ricevitore e vista anche l'esplosione di Cruz.

Secondo alcune voci non controllate qualcuno a Green Bay pensa di mettere il franchise tag sul QB Matt Flynn.
Non so se nel Wisconsin qualcuno è talmente fuori di testa da spendere più di 14 milioni di dollari su una riserva che l'ultima stagione ha giocato una partita, ma io di sicuro non lo farei e lo lascerei andare. Pare che a Miami, ma soprattutto a Washington dove hanno un sacco di spazio sul cap, lo accoglierebbero a braccia spalancate.

L'ultimo giocatore a ricevere il tag è, per ora, il RB Ray Rice dei Ravens. Prima di lui, oltre al citato DeSean Jackson, l'onore del tag è toccato al DE Calais Campbell dei Cardinals, al TE Fred Davis dei Redskins, al CB Brent Grimes dei Falcons e alle safeties Tyvon Branch dei Raiders e Dashon Goldson dei Niners.
Da qui alla mezzanotte di lunedì 5 marzo ne vedremo delle belle (o delle brutte, a seconda delle decisioni e dei punti di vista).

Ultimora: I Bengals hanno appena annunciato il tag sul kicker Mike Nugent, mentre almeno altri due kickers, secondo Jason LaCanfora di Sports Illustrated, potrebbero riceverlo nelle prossime ore.

lunedì 20 febbraio 2012

Telenovela Manning

Almeno fino al prossimo 8 marzo gli appassionati di NFL sanno che cosa terrà banco sui mezzi d'informazione: non saranno i camp per i senior che pure si terranno entro la fine del mese di marzo, non sarà il draft che è ancora lontano e neppure, come sarebbe logico, il mercato dei free agents che inizia in questi giorni e presenta diversi pezzi da novanta.
A tenere il banco, e le pagine internet occupate, sarà la sorte di Peyton Manning e il suo rapporto con i Colts.

Molti sono i motivi di interesse nella vicenda, a cominciare dal fatto che stiamo parlando del futuro di uno dei migliori QB di tutti i tempi, ma a mio parere la vicenda è intrigante soprattutto per il carattere dei due personaggi coinvolti.

Uno è il proprietario dei Colts, Jim Irsay, che a vederlo la prima volta con quella barba incolta e quella voce un po' strascicata pare uno dedito ad abbracciare più la bottiglia che i familiari ma già dopo averlo riascoltato e rivisto, ed esserti accorto che la barbetta è la stessa, capisci che questo in realtà è uno che sa dove dorme il polpo e l'arietta a metà fra il trascurato e il trasandato è studiata per farti abbassare la guardia e manipolarti meglio.
L'altro è il bravo ragazzone americano, il cui padre è un ex giocatore ed il cui fratello "carognetta" (chiedere ai Chargers) e (dicono) meno dotato ha un albo d'oro più ricco. In più, il che non guasta, il nostro eroe coltiva una tale passione da, si dice, farlo arrivare al primo giorno di camp da professionista con un elenco di domande sul playbook dell'anno precedente da rivolgere al coaching staff ed è talmente conoscitore degli aspetti del gioco che, sempre secondo i si dice, lo staff degli allenatori d'attacco chiede il suo parere preventivo prima di inserire un qualunque gioco nel playbook.

Se capisci l'uno è facile comprendere il motivo per cui la questione è lontana dall'essere risolta nonostante le dichiarazioni di reciproco eterno amore: l'invito "The door is open" che Irsay ha rivolto a Manning pochi giorni fa non è un'accoglienza a braccia aperte quanto piuttosto l'invito che il ragno rivolge alla mosca a visitare la ragnatela. Difatti poco fa lo stesso Irsay ha parlato di una ristrutturazione del contratto talmente pesante da risultare quasi irricevibile e le attese per un colloquio con il QB della vittoria del Superbowl 2006 sono destinate a prolungarsi.
Se inquadri la personalità e la passione dell'altro capisci anche, e li giustifichi con l'amore per il gioco pur senza perdonarli, certi atteggiamenti "strani" come la fuga in Europa nonostante l'opposizione dello staff medico e un'operazione tenuta nascosta per mesi. Difatti Irsay può pretendere un contratto di impatto vicino allo zero sul salary cap e legato quasi esclusivamente alle presenze ed al rendimento sul campo senza essere troppo crocifisso dai tifosi perché le attuali, e reali, condizioni di salute di Manning, e la sua capacità di tornare a produrre gioco e spettacolo, sono più riservate della famigerata Area 51.

Alla fine però resta anche una questione di soldi.
Entro l'otto marzo i Colts devono a Manning 28 milioni di dollari di roster bonus, che uniti ai 7,4 del contratto base fanno più di 35 milioni ed è un bel gruzzolo per uno che in questa stagione il campo lo ha visto solo in borghese dalla linea laterale e del quale ancora non conosci l'effettivo stato di salute. Perciò il lieto fine che intravedono, e un po' sperano, i sentimentali dello sport, cioè il veterano che gioca le sue ultime partite facendo da chioccia al giovanissimo talento che lo sostituirà nel cuore dei tifosi, pare lontanissimo.
Con poco spazio, presumibilmente, nel salary cap, mezza squadra da ricostruire, Reggie Wayne e Robert Mathis (per citare i due più importanti) unrestricted free agents e il talentuosissimo Andrew Luck che pretenderà giustamente di essere ricoperto di verdoni, tenere i due quarterbacks sotto lo stesso tetto potrebbe veramente non essere possibile; specialmente se è vero quel che sostiene Mortenesen (ESPN NFL Insider) e cioè che una volta pagato il roster bonus il contratto di Manning finirebbe nel cap per il valore attuale anche se venisse ristrutturato prima del kickoff della stagione 2012.
Tutto questo a meno che Peyton non faccia come gli chiede Irsay e non rinunci ad una montagna e mezzo di soldi.

Fra dichiarazioni di amore eterno e soldi che Irsay non è disposto a spendere e ai quali Manning non sembra intenzionato a rinunciare, fra condizioni di salute precarie e desideri dei tifosi che non vorrebbero vedere il proprio beniamino far vincere una qualsiasi altra squadra qualunque soluzione si trovi sembra essere l'alternativa del diavolo di Forsythe: ognuna delle vie che puoi percorrere per risolvere la situazione comporta sofferenza.

sabato 18 febbraio 2012

Linsanity

Non c'è alcun dubbio che in America abbiano fame di "eroi", eroi in senso buono naturalmente: quelli sportivi.
Pochi mesi fa è salito agli onori delle cronache un ragazzone che gioca quarterback in Colorado, Tim Tebow, il quale, nonostante abbia una tecnica di lancio a dir poco rozza e statistiche sui passaggi non proprio esaltanti (e converrete con me che per un QB questo potrebbe e dovrebbe essere un problema) ha letteralmente trascinato i Denver Broncos ai playoff della NFL.
Poco importa che siano forse stati il carisma o l'aiuto "soprannaturale", essendo Tim profondamente religioso, più che le effettive capacità del giovanotto a trasformare gli scarsi Broncos in un team vincente, resta il fatto che la popolarità dell'ex QB dei Florida Gators è stata talmente debordante che alla vigilia del Superbowl su Twitter molti addetti ai lavori si chiedevano quando la ESPN avrebbe smesso di parlare di Tebow per occuparsi finalmente della partita imminente.

Terminata la stagione del football adesso è un altro eroe che riempie gli onori delle cronache: Jeremy Shu How Lin, per il quale è stato appunto coniato il termine "Linsanity".
La storia di questo cestista cino-californiano è in certo senso molto "americana": rimasto "undrafted" (non scelto) alla lotteria del 2010 viene invitato dai Mavericks, forse impressionati dalla sua media punti ad Harvard nella Ivy league (dove prima si studia poi si fa sport), a giocare nella Summer League dove ha modo di mettersi in mostra perché riceve alcune proposte di contratto e sceglie Golden State, squadra in cui rimane un anno a mezzo milione di dollari e gioca 29 partite con 2,6 punti di media.
Nel 2011 passa a New York e le sue cifre sono del pari poco esaltanti. Tuttavia qualcuno lo ama o intravede in lui notevoli potenzialità perché a Natale, all'inizio di questa stagione ridotta dell'NBA, Lin è di nuovo seduto sulla panchina dei Knicks e sembra destinato a restarci a lungo ed alzarsi solo in rare occasioni e per pochi minuti, come del resto la stagione precedente e quella prima ancora.
Ma in America, si dice, tutti hanno una possibilità e non c'è dubbio che Lin abbia giocato bene la sua mano nell'occasione che la sorte e la vita gli hanno concesso: infortuni a catena per la squadra coi pantaloni alla zuava e coach D'Antoni, vecchia conoscenza della palla al cesto italica, lo mette in campo da titolare; sarà un successo.
Nella prima partita da partente Lin scrive a referto 25 punti, poi ne segna 28 e quindi 23, ma è ancora un carneade. Gli onori delle cronache arrivano il 10 febbraio quando praticamente da solo strapazza i Lakers mettendo a segno 38 punti, conditi con 7 assist, ma la vera Linsanity comincia il giorno di San Valentino quando il nostro eroe si dimostra anche uno con la mentalità vincente imbucando il tiro da tre vincente all'ultimo secondo contro i Raptors.
Da allora l'astro di Lin brilla di luce propria e i tifosi dei Knicks, da anni assetati di vittorie, impazziscono: le magliette vanno a ruba, piatti e bevande vengono battezzati con il suo nome e perfino una copertina di Time lo onora.
Non si deve neanche trascurare la provenienza etnica della brillantissima stella, la comunità cino-americana, vittima di stereotipi e di razzismo, che ci consente così di chiudere il cerchio sulla favola americana: un signor nessuno, sottostimato per pregiudizi razziali, che si alza dalla panchina cui sembra destinato per tutta la vita e vola ad abbracciare gli onori e la gloria.

Ma sarà, appunto, vera e duratura gloria?