lunedì 20 febbraio 2012

Telenovela Manning

Almeno fino al prossimo 8 marzo gli appassionati di NFL sanno che cosa terrà banco sui mezzi d'informazione: non saranno i camp per i senior che pure si terranno entro la fine del mese di marzo, non sarà il draft che è ancora lontano e neppure, come sarebbe logico, il mercato dei free agents che inizia in questi giorni e presenta diversi pezzi da novanta.
A tenere il banco, e le pagine internet occupate, sarà la sorte di Peyton Manning e il suo rapporto con i Colts.

Molti sono i motivi di interesse nella vicenda, a cominciare dal fatto che stiamo parlando del futuro di uno dei migliori QB di tutti i tempi, ma a mio parere la vicenda è intrigante soprattutto per il carattere dei due personaggi coinvolti.

Uno è il proprietario dei Colts, Jim Irsay, che a vederlo la prima volta con quella barba incolta e quella voce un po' strascicata pare uno dedito ad abbracciare più la bottiglia che i familiari ma già dopo averlo riascoltato e rivisto, ed esserti accorto che la barbetta è la stessa, capisci che questo in realtà è uno che sa dove dorme il polpo e l'arietta a metà fra il trascurato e il trasandato è studiata per farti abbassare la guardia e manipolarti meglio.
L'altro è il bravo ragazzone americano, il cui padre è un ex giocatore ed il cui fratello "carognetta" (chiedere ai Chargers) e (dicono) meno dotato ha un albo d'oro più ricco. In più, il che non guasta, il nostro eroe coltiva una tale passione da, si dice, farlo arrivare al primo giorno di camp da professionista con un elenco di domande sul playbook dell'anno precedente da rivolgere al coaching staff ed è talmente conoscitore degli aspetti del gioco che, sempre secondo i si dice, lo staff degli allenatori d'attacco chiede il suo parere preventivo prima di inserire un qualunque gioco nel playbook.

Se capisci l'uno è facile comprendere il motivo per cui la questione è lontana dall'essere risolta nonostante le dichiarazioni di reciproco eterno amore: l'invito "The door is open" che Irsay ha rivolto a Manning pochi giorni fa non è un'accoglienza a braccia aperte quanto piuttosto l'invito che il ragno rivolge alla mosca a visitare la ragnatela. Difatti poco fa lo stesso Irsay ha parlato di una ristrutturazione del contratto talmente pesante da risultare quasi irricevibile e le attese per un colloquio con il QB della vittoria del Superbowl 2006 sono destinate a prolungarsi.
Se inquadri la personalità e la passione dell'altro capisci anche, e li giustifichi con l'amore per il gioco pur senza perdonarli, certi atteggiamenti "strani" come la fuga in Europa nonostante l'opposizione dello staff medico e un'operazione tenuta nascosta per mesi. Difatti Irsay può pretendere un contratto di impatto vicino allo zero sul salary cap e legato quasi esclusivamente alle presenze ed al rendimento sul campo senza essere troppo crocifisso dai tifosi perché le attuali, e reali, condizioni di salute di Manning, e la sua capacità di tornare a produrre gioco e spettacolo, sono più riservate della famigerata Area 51.

Alla fine però resta anche una questione di soldi.
Entro l'otto marzo i Colts devono a Manning 28 milioni di dollari di roster bonus, che uniti ai 7,4 del contratto base fanno più di 35 milioni ed è un bel gruzzolo per uno che in questa stagione il campo lo ha visto solo in borghese dalla linea laterale e del quale ancora non conosci l'effettivo stato di salute. Perciò il lieto fine che intravedono, e un po' sperano, i sentimentali dello sport, cioè il veterano che gioca le sue ultime partite facendo da chioccia al giovanissimo talento che lo sostituirà nel cuore dei tifosi, pare lontanissimo.
Con poco spazio, presumibilmente, nel salary cap, mezza squadra da ricostruire, Reggie Wayne e Robert Mathis (per citare i due più importanti) unrestricted free agents e il talentuosissimo Andrew Luck che pretenderà giustamente di essere ricoperto di verdoni, tenere i due quarterbacks sotto lo stesso tetto potrebbe veramente non essere possibile; specialmente se è vero quel che sostiene Mortenesen (ESPN NFL Insider) e cioè che una volta pagato il roster bonus il contratto di Manning finirebbe nel cap per il valore attuale anche se venisse ristrutturato prima del kickoff della stagione 2012.
Tutto questo a meno che Peyton non faccia come gli chiede Irsay e non rinunci ad una montagna e mezzo di soldi.

Fra dichiarazioni di amore eterno e soldi che Irsay non è disposto a spendere e ai quali Manning non sembra intenzionato a rinunciare, fra condizioni di salute precarie e desideri dei tifosi che non vorrebbero vedere il proprio beniamino far vincere una qualsiasi altra squadra qualunque soluzione si trovi sembra essere l'alternativa del diavolo di Forsythe: ognuna delle vie che puoi percorrere per risolvere la situazione comporta sofferenza.

sabato 18 febbraio 2012

Linsanity

Non c'è alcun dubbio che in America abbiano fame di "eroi", eroi in senso buono naturalmente: quelli sportivi.
Pochi mesi fa è salito agli onori delle cronache un ragazzone che gioca quarterback in Colorado, Tim Tebow, il quale, nonostante abbia una tecnica di lancio a dir poco rozza e statistiche sui passaggi non proprio esaltanti (e converrete con me che per un QB questo potrebbe e dovrebbe essere un problema) ha letteralmente trascinato i Denver Broncos ai playoff della NFL.
Poco importa che siano forse stati il carisma o l'aiuto "soprannaturale", essendo Tim profondamente religioso, più che le effettive capacità del giovanotto a trasformare gli scarsi Broncos in un team vincente, resta il fatto che la popolarità dell'ex QB dei Florida Gators è stata talmente debordante che alla vigilia del Superbowl su Twitter molti addetti ai lavori si chiedevano quando la ESPN avrebbe smesso di parlare di Tebow per occuparsi finalmente della partita imminente.

Terminata la stagione del football adesso è un altro eroe che riempie gli onori delle cronache: Jeremy Shu How Lin, per il quale è stato appunto coniato il termine "Linsanity".
La storia di questo cestista cino-californiano è in certo senso molto "americana": rimasto "undrafted" (non scelto) alla lotteria del 2010 viene invitato dai Mavericks, forse impressionati dalla sua media punti ad Harvard nella Ivy league (dove prima si studia poi si fa sport), a giocare nella Summer League dove ha modo di mettersi in mostra perché riceve alcune proposte di contratto e sceglie Golden State, squadra in cui rimane un anno a mezzo milione di dollari e gioca 29 partite con 2,6 punti di media.
Nel 2011 passa a New York e le sue cifre sono del pari poco esaltanti. Tuttavia qualcuno lo ama o intravede in lui notevoli potenzialità perché a Natale, all'inizio di questa stagione ridotta dell'NBA, Lin è di nuovo seduto sulla panchina dei Knicks e sembra destinato a restarci a lungo ed alzarsi solo in rare occasioni e per pochi minuti, come del resto la stagione precedente e quella prima ancora.
Ma in America, si dice, tutti hanno una possibilità e non c'è dubbio che Lin abbia giocato bene la sua mano nell'occasione che la sorte e la vita gli hanno concesso: infortuni a catena per la squadra coi pantaloni alla zuava e coach D'Antoni, vecchia conoscenza della palla al cesto italica, lo mette in campo da titolare; sarà un successo.
Nella prima partita da partente Lin scrive a referto 25 punti, poi ne segna 28 e quindi 23, ma è ancora un carneade. Gli onori delle cronache arrivano il 10 febbraio quando praticamente da solo strapazza i Lakers mettendo a segno 38 punti, conditi con 7 assist, ma la vera Linsanity comincia il giorno di San Valentino quando il nostro eroe si dimostra anche uno con la mentalità vincente imbucando il tiro da tre vincente all'ultimo secondo contro i Raptors.
Da allora l'astro di Lin brilla di luce propria e i tifosi dei Knicks, da anni assetati di vittorie, impazziscono: le magliette vanno a ruba, piatti e bevande vengono battezzati con il suo nome e perfino una copertina di Time lo onora.
Non si deve neanche trascurare la provenienza etnica della brillantissima stella, la comunità cino-americana, vittima di stereotipi e di razzismo, che ci consente così di chiudere il cerchio sulla favola americana: un signor nessuno, sottostimato per pregiudizi razziali, che si alza dalla panchina cui sembra destinato per tutta la vita e vola ad abbracciare gli onori e la gloria.

Ma sarà, appunto, vera e duratura gloria?